RED MEDICINE

Che-Guevara

Dieci anni fa un mio cliente mi portò i bigliettini elettorali del fratello, non ricordo se in occasione delle comunali o delle europee. Tutto, dal simbolo della lista al nome del candidato, passando per la sua faccia, faceva a cazzotti con le mie idee, così, con educazione, restituii al mittente i preziosi rettangolini cartacei. Fu un gesto spontaneo, anche semplice, eppure mi costò un po’ di amarezza e di disagio. Il cliente era, lo è ancora, tra quelli che mi lasciano più soldi e, indipendentemente dalle sue (spesso orride) scelte musicali, non ho mai capito davvero che persona è, dato che al di fuori di Nordovest non lo incontro mai. In parole povere, mi presi un bel rischio. Per molto meno, c’è gente che evita di entrare nel mio negozio. Per fortuna non se la prese. Dopo pochi minuti passò un ragazzo che negli anni precedenti aveva svolto il mio stesso lavoro, così gli raccontai l’episodio. Il suo commento fu illuminante: “Se uno entra qui dentro e non capisce subito da che parte stai vuol dire che è ottuso”. Ecco, non avrei saputo difendermi meglio. Il modo in cui è arredato il negozio, la musica che ogni giorno viene passata attraverso il mio lettore CD e il mio giradischi, i poster sulle pareti, gli adesivi attaccati alla bacheca e il mio comportamento quotidiano dovrebbero essere sufficienti a definire le mie idee entro certi confini.

Warehouse: Songs And Stories è un incredibile album degli Husker Du, che inizia con la trascinante These Important Years, scritta e cantata da Bob Mould. Gli Husker Du sono i Beatles dell’american indie, per alcune ragioni. Tanto per cominciare, i due leader si dividevano il repertorio. Bob Mould cantava i pezzi che scriveva, spigolosi e politici, mentre il batterista Grant Hart era l’autore nonché la voce di quelli più melodiosi, attinenti al power pop. Come i Beatles, ebbero una carriera lunga circa un decennio, fatta di album pubblicati a circa un anno di distanza tra loro. Come i Beatles, realizzarono i loro capolavori nella seconda parte della carriera. All’inizio erano una band punk che suonava pezzi velocissimi e ruvidi, alla fine, quindi nell’album che ho nominato in precedenza, sembravano una sorta di R.E.M. sotto acido. Già in un album precedente, avevano pubblicato una canzone, chiamata Divide and Conquer, nella quale andavano al di là del semplice intrattenimento pop per realizzare un piccolo testo illuminante che anticipava in modo assai concreto la realtà sociale che ci avrebbe investito nei decenni successivi, ma fu con These Important Years che Mould si prese una bella responsabilità, portando il punk rock a un secondo livello di lettura. Quella canzone non usava facili frasi fatte né si appropriava di eroi del passato portandoli (in modo inopportuno) dalla propria parte, vizio comune a chi fa politica in senso ufficiale, con tanto di tessera di partito. Bob Mould si rivolse al singolo individuo e lo esortò ad avere coscienza del momento storico, a rendere il proprio mondo migliore, a non sprecare tutte le piccole possibilità che abbiamo. Quando un artista, tra l’altro americano, dimostra tanta sensibilità senza leccare il culo alla massa, non può che conquistarmi. Così fecero anche i Fugazi, con le loro canzoni intelligenti e straordinarie, che mescolano l’eccitazione del rock’n’roll con l’impegno sociale. Questa è gente che avrebbe potuto fare tanti soldi, se avesse accettato di fare qualche marchetta o se avesse allungato la carriera, invece ha sempre preferito guardarsi allo specchio senza doversi vergognare. E’ gente che, alle lusinghe degli altri, preferisce la propria soddisfazione interiore.

Una sera, dopo un aperitivo, mi ritrovai a cena con un’amica e con uno sconosciuto. Entrambi dichiaratamente di sinistra. A un certo punto, la discussione si concentrò su un aspetto ben preciso. La mia amica disse senza troppi giri di parole che il suo uomo ideale è un uomo di successo. Esempi pratici: un avvocato che vince tutte le cause, un politico che vince le elezioni, una star della musica, un grande sportivo. Deve essere però un numero uno, non basta partecipare. Rimasi un po’ perplesso, anche se apprezzai molto la sua schiettezza. Dopo qualche giorno mi venne in mente il modo in cui questa ragazza sceglie la musica da ascoltare, dal vivo o su disco. Non riesce, proprio patologicamente, a essere attratta da un artista che sia poco conosciuto. Non c’è niente da fare: per lei esistono solo le grandi band e le grandi star. Se il biglietto di un concerto costa meno di cento euro non è degno di essere comprato. Se un artista riempie a fatica un locale da cinquecento posti: “Archille’, chi è questo che vai a sentire? Il solito sfigato di nicchia che piace solo a te, vero?”.

A queste cose pensai, pochi giorni dopo, quando andai a un concerto dei Diaframma. Ecco, Federico Fiumani non è tanto diverso da Bob Mould o da Ian MacKaye; anche lui è stato vicino al successo e si è sempre rifiutato di vendere l’anima al diavolo, anche lui fa la rivoluzione davanti allo specchio, da sempre. La mia amica non l’ha mai sentito nominare. Tantissima gente non l’ha mai sentito nominare. Riempie a fatica i locali da cinquecento posti, qualche volta anche quelli da duecento. In un suo libro, molto bello, che si chiama Brindando coi demoni, Fiumani scrive che l’arte è per definizione apolitica. Ha ragione, e non c’è niente di male ad avere successo, e non è neanche corretto pensare che l’artista di nicchia sia per forza più valido ma, lasciatemelo dire, sapere che uno come lui sia entrato, con le sue magnifiche canzoni, nella storia della musica e nel cuore di tanta gente (anche se non tantissima) restando indipendente e puro, è una cosa che mi fa pensare a Che Guevara. Ecco la mia sinistra: quella di chi resta nella memoria e nel cuore delle persone partendo da una posizione di minoranza. In questo senso sono guevariano. Le obiezioni dei pacifisti e dei benpensanti che lo ritengono un mercenario violento e contrario ai diritti umani non mi toccano. Che Guevara rovesciò una nazione insieme a quaranta contadini, ed è l’unica cosa che infiamma il mio cuore quando si parla di politica. Come potrebbe infiammarmi il PD con tutta la sua sete di potere?

Se Fiumani è guevariano, per come la vedo io, Bruce Springsteen (del quale c’è un poster in bella mostra in negozio, a dire il vero, ma che non fa un disco importante da quando andavo alle elementari), gli U2 e gli AC/DC  sono il PD della musica. Il loro successo è ecumenico, democristiano, senza dubbio inseguito e coltivato. Andare a certi concerti è come andare dal papa: si è sicuri di essere in tanti. La mia amica di prima non mancherebbe di certo in mezzo al pubblico perché se ci vanno tutti vuol dire che bisogna esserci. Il timore (che condivisi con Emanuela) di ritrovarci in un locale vuoto, prima del concerto di Clementi e Nuccini dedicato a T.S. Eliot, timore peraltro smentito dalle circa centocinquanta persone che avrebbero dedicato il proprio tempo alla purezza dei Quattro Quartetti, ha a che fare con stati d’animo eccitanti quali l’incertezza e lo stupore. Ha a che fare con l’emozione di guardare e ascoltare qualcuno che porta avanti la sua arte in modo straordinario e non corrotto. Qualcuno che, andando via dal locale dopo lo show, nonostante la sua posizione di netta superiorità come essere umano speciale e immortale, ci avrebbe perfino ringraziato, con una botta di umiltà che avrebbe potuto davvero rovesciare una nazione.

Un episodio accaduto in negozio sintetizza il rapporto politico che c’è tra me e la musica. Un avvocato che compra solo vinile, con predilezione per il rock anni settanta e per il jazz più raffinato, mi ha chiesto come fosse il nuovo album dei Deep Purple. Io l’ho snobbato, rispondendogli che non mi importa nulla di sapere com’è quel disco. Lui si è schernito, ha arricciato il naso e mi ha sbeffeggiato: “In compenso vedo che i dischi di Mark Lanegan non mancano mai nel tuo negozio”. Gli ho risposto con inusuale (per me) eleganza: “Ma Lanegan è il mio pupillo! E’ piezz’ ‘e core! E poi lo sai, la mia donna ideale è quella che incontro al bar o al supermercato, mica quella famosa!”. Mi ha guardato, apparentemente convinto; forse nella sua testa stava girando il mai troppo lodato verso di Fabrizio De André, quello dei diamanti e del letame. E’ stato bello gioire dentro di me, il giorno dopo, quando ho venduto il vinile di Mark Lanegan che l’avvocato aveva dileggiato, mentre quello dei Deep Purple è ancora al suo posto, a distanza di un mese.

Dal basso nascono grandissimi artisti, e qualche volta non arrivano neanche a goderselo, il successo. E’ per questo che l’anno scorso ho dato volentieri qualche soldo ai Television, per un concerto passato inosservato ai più, magari intenti a battagliare su Internet per il biglietto (costosissimo) di un concerto più importante. Quei Television che, letteralmente, montarono il palco del CBGB, a Bowery, locale che, per definizione, ha fatto la storia del punk. Quei Television che, di quel locale, erano le stelle indiscusse e che, però, non avrebbero mai ricevuto in dono, dal resto del mondo, la fama meritata. Questo è il mio modo di essere di sinistra: amare le persone diverse, quelle che rompono lo status quo, quelle che non cercano il consenso di tutti ma che cambiano la vita anche a pochi di noi. Quelle intellettualmente oneste, non quelle che comprano gli spazi sui media. La mia sinistra non ha alcuna tessera ma vive nei colori, nei suoni e negli adesivi sulle pareti di Nordovest.

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